Tutti gli esseri senzienti (persone, animali, forse anche gli insetti) condividono l'aspirazione fondamentale a liberarsi dalle sofferenze. Se tutto ciò di cui abbiamo bisogno è, in ultima analisi, essere felici, da dove proviene allora la necessità di studiare e comprendere il funzionamento del cervello? Non è sufficiente essere felici e basta e lasciar perdere tutto il resto? Sfortunatamente le cose non funzionano in questo modo.
Uno dei principali ostacoli con cui è necessario confrontarsi in questo processo di liberazione è la convinzione che "siamo fatti così e non c'è nulla che possiamo fare per cambiare lo stato delle cose". Molti di noi sperimentano questi atteggiamenti di disfattismo, ed anzi è un attimo ad inciampare in quel marasma di esperienze di vita che possono far scivolare nello sconforto generale. Tuttavia, pensare che la nostra mente non possa subire alcun mutamento paralizza ogni tentativo di modificarla.
In realtà il nostro cervello sembra strutturato in modo tale da consentire la messa in atto di mutamenti concreti in rapporto all'esperienza. Parlando in maniera molto semplice, buona parte dell'attività del nostro cervello è riconducibile ad un tipo di cellule veramente particolari, chiamate neuroni. I neuroni sono delle cellule estremamente amichevoli che amano scambiare parole tra loro. Li potremmo paragonare a dei bambini che passano il tempo a rincorrersi o a bisbigliare, con l'unica differenza che le parole che saltano da un orecchio all'altro dei neuroni sono sensazioni, movimenti, ricordi, pensieri, emozioni. Queste cellule pettegole hanno un po' la forma di un albero: un tronco, che si chiama assone, e una chioma con dei rami che puntano verso le altre cellule del corpo (come quelle dei muscoli, della pelle o degli organi di senso). Questi neuroni si scambiano reciprocamente informazioni, come il fruscio del vento che smuove la chioma di un albero prima che si accenda un lampo, attraverso alcuni piccoli spazi vuoti che si chiamano sinapsi. Le informazioni che scorrono attraverso le sinapsi sono in realtà molecole chimiche, i neurotrasmettitori, che provocano la formazione di segnali elettrici, volendo anche misurabili (ad esempio con un EEG). Alcuni tra questi neurotrasmettitori sono ormai abbastanza famosi, come la dopamina e la serotonina, altri un po' meno. Quando un neurone parla all'altro viene trasmesso un segnale che in termini tecnici è chiamato potenziale d'azione.
Quando i neuroni stabiliscono un contatto tra di loro, a volte si forma un legame particolare che è paragonabile a una vecchia amicizia. Prendono infatti l'abitudine di trasmettersi lo stesso genere di informazioni, un po' come quando ci si vede tra vecchi amici e alla fine si finisce sempre per parlare delle stesse cose. Questo legame in effetti costituisce la base biologica di quelli che potremmo chiamare "atteggiamenti mentali", vale a dire quei particolari stati emotivi che si creano in noi in rapporto allo sperimentare determinati contenuti dell'esperienza. Attraverso la ripetizione di una stessa esperienza è possibile che un nostro schema mentale trovi conferma così come possa essere smentito, rinforzando o indebolendo un vechio modello strutturatosi come conseguenza dell'esperienza. In termini neurobiologici, questa capacità di sostituire delle vecchie connessioni neuronali con altre più recenti prende il nome di plasticità neuronale. I tibetani, che prima di incontrare gli scienziati occidentali nulla sapevano dei potenziali d'azione e delle sinapsi, hanno comunque trovato un vocabolo per definire a modo loro la neuroplasticità prima che gli venisse spiegata: le-su-rung-wa, che forse potrebbe essere tradotto come "malleabilità" o "duttilità". Possiamo chiamarla come vogliamo, ma in ogni caso tutto si riconduce ad un fenomeno: la ripetizione di una certa esperienza può cambiare l'atteggiamento mentale con cui ci si rapporta ad un contenuto esperienziale.
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